In un atollo del mare incontaminato vive un vecchio pescatore. Si chiama Matraca ed esercita la pesca con metodi antichi nel Banco Chinchorro, un’estesa barriera corallina nei mari del Messico. In questa Riserva della Biosfera, sottratta allo sfruttamento alberghiero che ha cambiato i connotati del Caribe messicano, Pedro Gonzalez-Rubio ha girato Alamar, una storia d’amore padre-figlio che è anche un forte messaggio ecologico.
A rendere possibili le riprese del film che è stato proiettato a Slow Fish, a Genova, cinema dei Cappuccini, il 20 maggio, è stata la collaborazione con Slow Food Caribe e Razonatura, organizzazione messicana che da oltre 10 anni si occupa di sostenibilità e sviluppo. Ma che vicenda racconta il film e perché, tra una conferenza e una degustazione, vale la pena vederlo? Lo abbiamo chiesto allo stesso Gonzalez-Rubio, presente all’anteprima assoluta del film per l’Italia, al cinema Beltrade di Milano e a Barbara Origlia e Kim Ley Cooper, entrambi di Razonatura e Slow Fish Caribe, collegati via Skype dal Messico.
«Potevo girare un documentario, ma ho voluto fare un film: la storia, semplice ma commovente di Matraca» spiega il regista. «Un giorno suo figlio Jorge lo raggiunge con il nipotino, Natan, nella sua piccola palafitta. Natan ha 5 anni, vive a Roma con la mamma e prima che il piccolo vada a scuola Jorge vuole fargli conoscere il suo mondo. A Banco Chinchorro, Natan e Jorge accompagnano ogni giorno il nonno a pescare. Il piccolo scopre una profonda connessione con la natura, impara a perlustrare i fondali ricchissimi e fa amicizia con Blanquita, un airone bianco che va spesso a pranzo nella palafitta del nonno. E quando Blanquita scompare, Natan capisce che è ora di tornare a casa, ma il mare resterà dentro di lui per sempre».
Nella realtà, oggi Natan ha 13 anni e vive a Playa del Carmen con sua madre. Jorge fa la guida turistica, porta piccoli gruppi a osservare la natura e a fare birdwatching. Solo Matraca, nella vita come nel film, va ancora a pesca con la sua barca al Banco Chinchorro.
«Banco Chinchorro è accessibile solo a noi ricercatori e, per alcune settimane all’anno, ai pescatori di Mahahual, il villaggio più vicino, a 35 chilometri e tre ore di barca dalla costa» aggiunge Barbara Origlia. «Pescano l’aragosta spinosa dei Caraibi (Panulirus argus) o Chakay, termine derivato dalla lingua Maya, che è anche il nome del nostro progetto. Che include la pesca in apnea, a 15-20 metri di profondità, evitando le taglie piccole e le femmine ovipare, e la vendita dell’aragosta viva nei ristoranti e negli hotel, per valorizzare le risorse e la gastronomia locale. I pescatori sono organizzati in 6 cooperative con 200 soci, che operano nelle riserve che tecnicamente sono due: Banco Chinchorro e Sian Ka’an». Il prossimo passo sarà aprirle a un turismo sostenibile. «Pensiamo di portare qui, nella stagione di pesca, pochi visitatori che alloggeranno nelle palafitte dei pescatori, per incrementare il loro reddito, tutelare l’ecosistema e diffondere la consapevolezza della sua unicità e del suo valore» spiega il biologo Kim Ley Cooper.
A Genova, Slow Fish Caribe era presente con Kim, Barbara, il regista di Alamar e una nutrita delegazione di pescatori: Martha Ruth Gongora Garcia, socia della cooperativa Cozumel di Sian ka’an, Josue Daniel Hoil Galvez, segretario della coop. Azcorra di Sian Ka’an e Erik Leonel Xicum Menodza, pescatore e segretario della coop. Lanosteros del Caribe di Banco Chinchorro.