Gastronazionalismo in questo libro è identitàEuropa e per ultimo ma non meno importante: cibo.

L’Identità porta subito, fin dal primo capitolo, ad un altro concetto: crisi. Nel rendere merito a chi per primo ha coniato l’espressione ormai d’uso comune “crisi d’identità” (Erik Ericson) chiariamo subito che identità non è un concetto univoco e soprattutto non privo di contraddizioni. Sebbene il paradigma liberale abbia alleggerito l’individuo di “un’eredità ingombrante” (Bauman 2005, 32) per offrire chiavi e accessi per mondi possibili, l’individuo è ancora più incapace di autodefinirsi, da qui il ricorso a simboli, icone, brand, bandiere, inni dove le nostre scelte, comprese quelle di consumo, giocano un ruolo essenziale nel difficile compito di dire chi siamo. Questa crisi tuttavia non è un lusso esclusivo dell’individuo ma si allarga a stati, regioni, comunità. Così come le identità necessitano di riconoscimento, culturale, politico, religioso, sociale, la stessa società esige una narrazione che si compone di un bagaglio di concetti, storie e significati spendibili per la propria auto-legittimazione.

Identità e crisi ci conducono dunque al centro della questione politica europea. Se il compito di suggerire una cultura e aiutare gli individui a comporre la propria identità spetta agli Stati, perché l’Europa nasce primariamente come unione politica ed economica, allora la tentazione di guidare i cittadini verso un’identificazione nazionale – secondo un revival romantico che riporta le nazioni a recuperare un senso di individualità storica – diventa complesso il compito di immaginare un’Europa unita ma diversa. Anno dopo anno, abbiamo misurato la difficoltà di introdurre nel paradigma nazionale nozioni di pluralismo, e sorge spontaneo chiedersi se quella di “nazione” sia ancora una formula idonea a cui riferirsi per portare la diversità all’interno del discorso dell’unità. Contestualmente l’Europa è ancora molto lontana dal trovare una sintesi politica e culturale che possa disegnare un destino comune per i suoi cittadini, sintesi che richiede oggi uno sforzo di immaginazione ancora più grande. È ancora possibile per i popoli europei sperare in quel “salto nel blu”?

In tutto questo qual è il ruolo del cibo? La risposta è: culturale.

Gastronazionalismo riprende un concetto, quello di ideational embedness (Somers & Block 2005): un modello per considerare come gli stati e le industrie utilizzino la cultura per legittimare e proteggere i loro mercati. Ebbene la gastronomia si presta fin troppo bene ad essere utilizzata come strumento utile a misurare il grado di integrazione della cultura e accettazione della diversità in un contesto sociale. Tuttavia la capacità del cibo di coinvolgere nel particolare e nell’universale, di segnare appartenenze individuali e collettive, lo riduce molto spesso a vessillo identitario e manifesto politico. L’idea che il cibo potesse essere il manifesto più popolare dell’identità di una nazione e rappresentativo di una cultura popolare, comincia a diffondersi in Europa a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Durante la prima ondata di patrimonializzazione le nazioni iniziano a coltivare le proprie eccellenze, promuoverle e proteggerle. Ricordiamoci che i libri di cucina hanno svolto un grande ruolo nella storia nazionale, basta guardare all’opera di Pellegrino Artusi a cavallo del risorgimento e alla propaganda gastronomica tra futurismo e fascismo. Quella che viene definita “heritage fever” affonda dunque le sue radici nel romanticismo europeo ma trova il suo spazio legittimo nel 2003 a Parigi, in occasione della XXXII Conferenza generale dell’UNESCO quando viene approvata la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. Il passaggio da patrimonio tangibile a intangibile segna un cambiamento importante in ciò che è portatore di cultura, non solo le grandi opere dell’umanità, universalmente riconoscibili, ma anche quelle pratiche ordinarie che contraddistinguono un atto tradizionale e tipico di un popolo. Le comunità da fruitrici di cultura diventano produttrici e custodi di preziose memorie e saperi collettivi. L’introduzione di una matrice antropologica nelle considerazioni legate alla cultura dovrebbe portare il mondo ad abbracciare la diversità e considerare come prezioso qualcosa di vivo e incarnato nella comunità di riferimento tuttavia si registra un passaggio – nella gestione delle pratiche di vita “tradizionali” – segnatamente economico e artificioso. Nel passaggio da “locale” a “tipico” (spesso a sua volta confuso con lo sdrucciolevole “tradizionale”) si registra un risultato paradossale: ciò che poteva rappresentare un modello di «economia diversa» (Graham e Gibson 2003) è in realtà viziato dalle condizioni in cui si è formato, pertanto il “locale” costituisce un nuovo livello competitivo nel mercato che affianca quello “globale”, e ciò che doveva essere “patrimonio intangibile” è semplicemente limited edition.

Nella scia della food heritage fever (Aykan 2016, 799) le strategie di marketing territoriale insistono nel porre l’origine come elemento portante della relazione tra la tradizione culturale di un popolo e il suo territorio: è il caso del Programma europeo per le Denominazioni d’Origine. L’origine è oramai largamente utilizzata per comunicare un prodotto in cui il “made in” conta molto, specialmente per contrastare il fenomeno della delocalizzazione e valorizzare produzioni che utilizzano l’elemento locale come vantaggio competitivo; sono invece troppo spesso trascurate le implicazioni politiche e soprattutto sociali legate a questo tipo di marketing territoriale. Non va dimenticato come il ricorso all’origine in quanto fattore strategico, specie se rivendicato dalle politiche nazionali, favorisca un tipo di retorica essenzialista, che giustifica o legittima una differenziazione basata sulla provenienza.

Dalla Dop Halloumi all’Hamburger Halal all’Aceto Balsamico Tradizionale argomentiamo come un’informazione atta a differenziare o qualificare un prodotto abbia il potere di incidere sul piano ideologico: la relazione tra pensiero e mondo materiale è sempre più indissolubile, come insegna la teoria del banal nationalism. L’identificazione con ciò che consumiamo o acquistiamo è proporzionata alla crescente capacità del mercato di saper stimolare e creare le nostre necessità, anche e soprattutto sotto il profilo della significazione. Così come il mercato halal è stato in grado di raccogliere l’esigenza identitaria delle comunità islamiche immigrate così anche le politiche nazionali o europee restituiscono un’origine ai prodotti per affermare un’identità quantomeno sottovalutata.