Pollenzo, 19 febbraio 2025

Magnifici Rettori,

Care e cari docenti, ricercatori, assegnisti di ricerca, colleghe e colleghi tecnici-amministrativi, collaboratrici e collaboratori,

Care studentesse, studenti, dottorande e dottorandi,

Caro Presidente,

Gentili membri del Consiglio di Amministrazione dell’Università e dell’Associazione Amici, Partner Strategici e Soci Sostenitori

Autorità civili, militari e religiose

Gentili ospiti

 

Introduzione: Passato, presente e futuro a Pollenzo

Benvenuti all’inaugurazione di questo nuovo Anno Accademico, il 21° dalla fondazione dell’Università di Pollenzo, e grazie di essere oggi qui con noi.

Entriamo nel ventunesimo anno di età, quella che un tempo era l’inizio dell’età adulta; oggi invece avere 21 anni non è più essere adulti. Ad ogni buon conto, durante il mese di maggio dello scorso anno, 2024, abbiamo festeggiato il nostro ventesimo compleanno: sono state due decadi entusiasmanti, che hanno segnato e indirizzato la vita di tanti di noi, qui presenti oggi, ma che hanno anche segnato un indirizzo generale dell’alta formazione sul cibo, in Italia e nel mondo intero. Oggi siamo una piccola comunità attorno a cui ruotano, tra docenti, studenti, ricercatori, dottorandi, assegnisti, visiting professor, personale tecnic-amministrativo circa 800 persone. A queste si aggiunge la rete degli Alumni, oltre 3000 in tutto il mondo. Quindi siamo una comunità di quasi 4000 persone: piccola, rispetto a quelle delle grandi Università, ma non così piccola, e soprattutto molto forte e orgogliosa.  È un orgoglio sottolineare che alcuni dei nostri Alumni ricoprono posizioni importanti e di prestigio in tanti ambiti lavorativi e accademici; e che lavorano a Pollenzo alcuni studiosi e ricercatori che sono eccellenze riconosciute in tutto il mondo nei loro rispettivi campi.

Dobbiamo dircelo: quando tutto questo cominciò – e chi vi parla ha avuto il privilegio di assistere allo stesso concepimento di questo progetto, che irruppe sulla scena accademica non solo italiana ma internazionale come una piccola/grande rivoluzione – nessuno poteva prevedere dove saremmo arrivati. Costruire un’università attorno alle “scienze gastronomiche” intese nel loro senso più pieno e multiverso, rielaborando l’intuizione del gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin di cui proprio quest’anno ricorre il bicentenario della prima edizione della Fisiologia del Gusto: allora quest’operazione fu salutata da alcuni con bonaria accondiscendenza; fu decisamente contrastata da altri, specialmente nel contesto accademico; e solo pochi ne riconobbero il coraggio e la creatività. Oggi tutti parlano di cibo.

Quella visionarietà, che si è rivelata nel tempo un progetto solido e lungimirante, era espressione della capacità artigianale di dare forma ad alcune idee.  Le idee, diceva un grande regista visionario recentemente scomparso, David Lynch, sono come i pesci: bisogna saperle pescare al momento giusto e poi saperle cucinarle sapientemente. Ciò vale per l’arte, ma anche per la scienza e per il pensiero in generale. Le idee che fecero nascere l’Università di Pollenzo furono colte e poi cucinate con impareggiabile maestria dai due principali chef di questo progetto: il nostro Presidente, Carlo Petrini, e il nostro primo Rettore, Alberto Capatti. Grazie, grazie, grazie per avere reso possibile tutto questo. E un sincero grazie anche al Rettore Cantino (che purtroppo ci ha lasciato troppo presto), al Rettore Grimaldi, al Rettore Pieroni e al Rettore Biolatti, tutti oggi qui con noi, i quali si sono succeduti negli anni nell’incarico che oggi chi vi parla ha l’onore di portare avanti, lungo una linea di comunanza e continuità.

Però, in due decenni di cose ne sono successe tante. La situazione del mondo, quindi anche delle Università, è cambiata molto. Lo sappiamo e lo abbiamo detto in tante occasioni: siamo stati i primi a battezzare le “scienze gastronomiche”; siamo stati pionieri e realizzatori di idee che oggi in tanti hanno ripreso e del tutto legittimamente elaborato, ciascuno a suo modo. E oggi viviamo in un tempo diverso, in una situazione che, anche rispetto allo specifico tema degli studi sul cibo e l’alimentazione, si presenta molto più ricca e frastagliata di allora. La domanda sorge allora spontanea, per dirla come quel famoso tale, che fare? Pollenzo è stato avanguardia, e vuole continuare ad essere avanguardia Non può che essere questa la vocazione di questo piccolo centro di formazione, di ricerca e di pensiero.

Ma cosa vuol dire oggi essere avanguardia? Qualcuno potrebbe dire – e in effetti, in tanti lo dicono – che ciò che è stato pensato e realizzato 20 anni fa è del tutto superato, e che va sostituito e rimpiazzato. Del resto, viviamo un tempo che alcuni hanno definito accelerato, un tempo in cui la durata di ogni cosa, specialmente per l’informazione, è brevissima, al massimo stagionale. Il tempo dell’obsolescenza programmata, che non è solo quella degli oggetti, ma anche quella della memoria e della mente delle persone. Tutto sembra scadere molto velocemente, tutto sembra essere dimenticato altrettanto rapidamente. Conseguentemente, tutto sembra innovativo, ma già vecchio il giorno dopo.

Ma è davvero così è anche per la conoscenza e per l’Università?

È ferma convinzione di chi vi parla che occorra vedere le cose un po’ diversamente. Essere avanguardia non significa seguire passivamente le mode effimere  del presente. Da un lato, infatti, non c’è futuro, non esiste alcun futuro, senza memoria: se non ricordiamo, e conoscere è innanzitutto ricordare, se non guardiamo il passato che è davanti a noi, semplicemente perché è transitato prima sulla strada del tempo, siamo persi e disorientati. Come avevano fatto notare gli antichi Latini, gli antenati, i nati prima, ci precedono, sono i predecessori: avendoci preceduto, hanno percorso la strada davanti a noi. Non è nostalgia, è la logica della vita. Cosa significa questo sul piano sociale e culturale? Che si va verso il futuro solo insieme ai predecessori, ripercorrendo la strada che loro hanno percorso, certo con occhi nuovi ma con lo stesso spirito con il quale essi l’hanno percorsa la prima volta.  Per non essere spaventati e terrorizzati dal futuro, servono guide ed esempi. E oggi molto terrore e molta ansia nascono dalla rimozione del passato, da quel fenomeno che è stato chiamato da alcuni studiosi eternismo del presente, che fa sì che tutto venga recepito e consumato nell’immediatezza di un’attualità sempre più superficiale e che produce una generalizzata amnesia.

Dall’altro lato, però, è altrettanto vero che vivere è continua rigenerazione, continuo rinnovamento. Questo vuol dire andare avanti: il futuro consiste precisamente in questo andare avanti (non si raggiunge mai, il futuro, come ben sappiamo: è sempre un passo più in là). Il futuro riguarda i posteri, cioè i nascituri, quelli che verranno dopo di noi: nostra prosecuzione ma diversi da noi. Bisogna dunque essere ricettivi rispetto alle loro esigenze e ascoltarli bene. Le loro voci non sono le nostre.

Bisogna dunque ripercorrere sempre la strada dei predecessori mantenendo il loro spirito, l’intuizione e la visione, ma al contempo rinnovandola continuamente con i passi dei nostri piedi, come faranno quelli dopo di noi. È la dialettica della storia come intreccio di passato, presente e futuro. La dialettica non è priva di frizioni e contrasti, ovviamente, ma anche questo fa parte del gioco.

 

Università nel futuro

Dunque, dove va l’Università in generale, qual è il futuro per l’Università in generale e per Pollenzo in particolare?

Ovviamente, nessuno lo sa con certezza. Chi predice con sicumera il futuro quasi sempre si sbaglia e fa molto affidamento anche sull’amnesia degli altri.  Quello che però sappiamo bene, perché lo stiamo vivendo, è che gli ultimi due decenni, e in particolare quell’evento enorme che è stato la Grande Pandemia, ha prodotto, o accelerato, trasformazioni notevoli in tutti i settori della vita sociale; nell’economia, nel lavoro e anche nella formazione. Sono esplose modalità di formazione “a distanza” che prima del COVID erano marginali, limitate e poco significative. Oggi, invece, queste modalità di formazione – mi riferisco in particolare alle cosiddette Università digitali, o telematiche – sembrano inarrestabili tanto da minacciare quelle “tradizionali”: è infatti in corso una battaglia piuttosto dura, senza esclusione di colpi, tra questi due modelli, specialmente in Italia dove il fenomeno delle università digitali è più forte che altrove. A ciò si aggiunga il fatto che, complice anche quello che è stato chiamato “inverno demografico”, la proiezione da qui a venti anni degli immatricolati in Italia è di – 20% circa (quasi 500 mila studenti). Non dimentichiamoci, peraltro, che in Europa vive il 6% della popolazione mondiale; che il modello non solo economico ma socio-politico di quello che chiamiamo “Occidente” attraversa un periodo difficile, e sicuramente non è già oggi più quello egemone almeno nel senso in cui lo è stato negli ultimi tre secoli. Tutto ciò non può non avere ripercussioni anche sul sistema della formazione universitaria.

Diversi futurologi suonano dunque campane a morto per la formazione cosiddetta in presenza. Come dicevo, però, pronosticare il futuro è un lavoro utile soprattutto per chi lo fa e per chi vende quello che pronostica succedere. Oggi le previsioni dicono: il futuro sarà digitale e tutto dipenderà dall’Intelligenza Artificiale. Ma ne siamo proprio sicuri, almeno nel senso di una sostituzione completa dell’analogico e di un rimpiazzo dell’umano da parte della macchina? Niente è meno certo. Pensiamo, per esempio, alle risorse dei materiali (come silicio e rame) per i chip dei computer e cellulari: quanto dureranno? E non potrebbe accadere al digitale quello che è accaduto all’era del carbone e all’era del petrolio? Pensiamo, rispetto all’IA, all’enorme dispendio energetico che attualmente comporta. Oppure a un altro problema che sta emergendo fortemente: quello del lavoro e dei rapporti sociali. Siamo sicuri che tutto potrà essere rimpiazzato? Oppure, ancora un altro grosso problema, forse il rischio maggiore, la concentrazione dei poteri: un tecno-capitale globale, in mano a poche persone che sta sconvolgendo lo scenario non solo economico ma anche percettivo, sociale, emotivo della vita umana.

In verità, dunque, tutto è molto problematico e più aperto di come vorrebbe certa narrativa, anche nelle scuole e nelle Università. Il futuro non è già scritto né già segnato. Fare avanguardia non significa seguire quello che fanno tutti e che dicono tutti: questo è mainstream. Se si analizzano dunque le situazioni in modo meno immediato le cose appaiono più sfumate e meno nette. Si legge, per esempio, che recentemente in Svezia e in altri paesi del Nord Europa si stanno iniziando a reintrodurre, nelle scuole, i fogli, le penne e le lavagne, dopo che in questi paesi si era digitalizzato tutto, perché si è visto che una completa e totale digitalizzazione dell’apprendimento può avere effetti non solo positivi sullo sviluppo cognitivo e relazionale. È senso comune, ma è anche vero e ce lo dicono gli psicologi, che i disagi emotivi degli studenti sono in costante crescita, in questi ultimi anni, anche per il progressivo isolamento a cui una vita solo online, una onlife, come è stata chiamata, produce. Nel mondo stanno cominciando a proporre corsi per imparare a vivere “off-line”, poiché stanno emergendo situazioni problematiche sul piano relazionale e dell’intelligenza emotiva e affettiva.

A un esame non accecato dall’eternismo del presente, emerge dunque una realtà ben più sfaccettata, fatta di corsi e ricorsi, di tendenze e di controtendenze: non si tratta di nostalgia o di retroguardia, ma proprio del suo contrario: avere lo sguardo lungo, questa è avanguardia. Costruire qualcosa che perduri nel futuro: questa è la qualità del pensiero di avanguardia. Se ci si pensa, una delle caratteristiche con cui si è da sempre identificata la qualità è ciò che dura nel tempo: durabilité come dicono i Francesi per sostenibilità.

Dunque essere avanguardia significa andare aventi nel futuro senza farsi incantare dalle sirene: la polarizzazione attuale tra apocalittici e integrati, tecnofobi e tecnofili, è sbagliata. Nessuno nega che il digitale e IA rappresentano qualcosa di importante, come è accaduto in tutti gli avanzamenti tecnologici della storia. Esprimono un reale arricchimento delle potenzialità dell’umano; da qui a parlare di digitalizzazione del mondo e di post-umano, di soppressione del pensiero analogico, di morte dell’intelligenza artigianale e della creatività irriducibile al pensiero algoritmico, ce ne corre.

Dunque, certamente ci si può formare anche a distanza: in modalità più individualizzata, singola e profilata per acquisire competenze e conoscenze. Questi modi sono legittimi, utili e anche più “efficienti”. Ma l’Università non si riduce un menu a tendina dove si sceglie quello che ci serve, si compra e si porta a casa. È un’altra cosa: l’Università è quel luogo dove si studia, si impara, si crea conoscenza, si cresce insieme, nello scambio, nel dialogo, nel confronto quotidiano con studenti e docenti. L’Università è una comunità viva e reale.

Ecco, io credo che una possibilità concreta per l’Università del futuro stia proprio nel rimarcare questa differenza che nasce da esigenze reali e ben riconosciute, oggi, tra due tipi di formazione e forse anche di necessità socio-culturali. Una differenza dunque che non risiede solo nella tipologia dei contenuti di conoscenza ma nella qualità di questi contenuti, una qualità che è indissolubile dal modo in cui vengono comunicati. Da un lato, abbiamo autonomia, personalizzazione individualistica, efficienza del tempo utilizzato, dall’altro eteronomia, collaborazione, condivisione, comunicazione. Queste due tendenze devono convivere secondo una dialettica di bilanciamento e di equilibrio.

Si può ben dire che la realtà digitale e la IA non configurano una radicale trasformazione di tutto. La potenza della macchina arricchirà le potenzialità della vita sociale, soddisferà alcuni bisogni e la memoria globale dei dati archiviati del mondo: ma non potrà sostituire quella parte dell’intelligenza umana che non è macchinica ma affettiva, relazionale, autenticamente generativa. IA non ha un corpo, non ha vita sociale, non genera prole. Per quanto ne sappiamo, non ci possiamo andare a cena (anche se alcuni futurologi ci dicono che un giorno sarà così: se mai fosse, diremo che ci siamo sbagliati. Per ora, però, non è proprio così, e attenzione a diventare più realisti del re, come si dice).

Ecco perché ha molto senso il nostro lavoro, ecco perché Pollenzo ha molto senso e va nel futuro. Le inevitabili trasformazioni, che fanno parte del costante processo di rigenerazione e di rinnovamento, devono essere accolte, accettate e messe a sistema, ma secondo un modello di ibridazione, di arricchimento e di empowerment, non di sostituzione totale. E niente come il cibo – campo complesso di tecniche e di affetti, di scienza e di storia – mostra bene questo modello.

 

Oltre l’individualismo e l’isolazionismo

Nessun passatismo, nessuna nostalgia in questa visione. A differenza del passato, infatti, l’Università si configurerà non come centro di costruzione della conoscenza e come centro di formazione in assoluto (perché questo oggi avviene e può svilupparsi ovunque) ma come luogo di costruzione e di conoscenza comunitaria, centro di relazioni e di esperienze reali. L’Università è dunque, per definizione, conviviale e ospitale. E ci sarà sempre, e forse sempre più bisogno, di convivialità e di ospitalità.

L’Università oggi più che mai deve essere dunque anti-isolazionista non per un motivo etico ma proprio per ciò che l’avanguardia delle scienze oggi ci indica: la realtà è un campo unificato, interconnesso, e pensare agli individui come monadi isolate questo sì, è antiscientifico e di retroguardia. L’individualismo e l’autonomismo sono errori perché non rispondono alle sfide del nostro tempo. Se non si collabora si è destinati all’estinzione.

Oggi la scienza più evoluta e consapevole ci dice che la conoscenza è un campo unificato di relazioni. Nella sua originale interpretazione della fisica quantistica, il grande fisico David Bohm perorava una concezione non frammentata della scienza, conseguenza di un’indivisa unita del reale. Secondo Bohm, ogni classificazione e separazione e illusoria e si origina dall’attitudine a percepire sulle cose e non con esse: ≪occorre vedere il mondo nei termini di un flusso universale di eventi e processi≫ (Bohm, Wholeness and the Implicate Order (1980), p. 12) anziché come un insieme di oggetti semplici e di elementi che si giustappongono, poiché le partizioni e le distinzioni non sono altro che astratte semplificazioni. Bohm sottolinea che tanto dalla relatività che dalla quantistica deve conseguire una nuova percezione del mondo come unità indivisibile. Le classificazioni e le distinzioni hanno un’utilità pratica e sono necessarie a operare, ma non devono essere considerate entità reali e autonome.

L’autonomia assoluta – tanto nella vita individuale che in quelle sociale – è un mito occidentale moderno, che porta al pregiudizio per cui esistono individui isolati che per sopravvivere, e vincere, devono lottare in competizione. Certo, la competizione è una componente essenziale dell’evoluzione, ma altrettanto lo è la collaborazione, come ha mostrato anche la biologia evoluzionistica (penso a Lynn Margulis e al concetto di simbionte) e come mostrano oggi l’antropologia e la fisica. Dice Carlo Rovelli: ≪Le cose sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono. Se ci fosse un oggetto che non ha interazioni, non influenza nulla, non agisce su nulla, non emette luce, non attira, non respinge, non si fa toccare, non profuma…sarebbe come non ci fosse. […] Il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo “realtà”, è la vasta rete di entità in relazione, che si manifestano una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte≫ (Rovelli 2020, 84-85)

Secondo un altro scienziato, Emilio Del Giudice, fisico teorico e Medaglia Prigogine nel 2009 ma anche attivista ecologista e divulgatore, la civiltà moderna, nata sulla scia della rivoluzione scientifica galileiana, ha concepito il mondo come il prodotto del libero gioco di soggetti e oggetti, liberi e individuali e autonomi. (Del Giudice 2019, p. 43). Il ≪moderno≫ si e dunque caratterizzato per la creazione di una scienza e una società nate grazie alla spinta di istanze allora emancipatrici, che però oggi non sono più risonanti con le scoperte della scienza e con i bisogni della società globale interconnessa. E innanzitutto questo concetto di individuo isolato che la prospettiva conviviale, relazionale, ospitale ed ecologica, ha messo in discussione.

 

Prospettive di collaborazione

Questa consapevolezza è un segno di grande trasformazione e di rinnovamento profondo anche nelle Università: non è più tempo di autonomie assolute, di isole del sapere. È tempo di reti e di relazioni. Per ciò, Pollenzo stiamo già andando in questa direzione e ci andremo ancora di più nei prossimi anni:

abbiamo, in questi ultimi tre anni, realizzato un Dottorato insieme all’Università di Torino; Master ibridi in collaborazione con organizzazioni intergovernative e con realtà imprenditoriali. Ma soprattutto, e qui lo voglio annunciare in anteprima, stiamo realizzando una nuova Laurea Triennale con il Politecnico di Torino su cibo, tecnologie e visione socio-culturale, per formare un “ingegnere-tecnologo/umanista-critico” del cibo: un progetto che abbiamo fortemente voluto insieme al Rettore Corgnati, proprio nell’ottica del superamento di confini e di presunte autonomie. Stiamo approntando anche una nuova Laurea Magistrale, in collaborazione con il College Venlo dell’Università di Maastricht su Cibo, salute, benessere, e ecologia: One Health. Non sono operazioni di buon vicinato o diplomazia universitaria, ma di rinnovamento e rigenerazione nel solco della vocazione avanguardistica che ci caratterizza.

L’idea, in entrambi questi nuovi corsi di studio, è quella di andare verso una dimensione planetaria, con collaborazioni che portino Pollenzo ancora di più dentro la dimensione unificata e interconnessa del sapere necessaria a uno sguardo critico ed evoluto.

Noi siamo partiti e continueremo a partire dal cibo, dalla conoscenza dei prodotti: ma cibo e prodotti non sono da intendersi, a Pollenzo, come meri oggetti da annusare, da gustare, da vendere e da consumare fine a se stessi: le scienze gastronomiche non sono mai state questo e non lo possono essere oggi più che mai. Il cibo è fatto da processi. Il cibo, la qualità del cibo, non è nulla senza i suoi processi. I prodotti, come gli esseri viventi, racchiudono moltitudini, sono ecologie di relazioni. Materiali e immateriali. Tecniche e poetiche. Simboliche e analitiche. Il cibo impedisce isolazionismi e chiede collaborazioni in senso radicale.

Attraverso il cibo, vogliamo formare persone che sappiano leggere criticamente la complessità del mondo, con un alto grado di consapevolezza e senza cedere alla piatta immediatezza e all’amnesia del presente, per poi operare a diversi livelli per renderlo, questo mondo, più qualitativo, durevole, sostenibile. Nel cibo, come sappiamo bene, poiché il cibo riguarda tutti e quotidianamente, il rischio di superficialità e banalità è molto alto. Pollenzo vuole essere un punto di riferimento mondiale per chi non si accontenta di questo. E questi due nuovi corsi di studio indicano proprio tre necessarie direzioni di ricerca e di pensiero. La prima: occorre approfondire sempre di più il rapporto del cibo con le tecnologie, e direi di più: il rapporto della sfaccettata natura tecnologica dell’umano (cosa sono l’uso del fuoco e del coltello, la bollitura e la vestizione, se non tecnologie? L’umano è un animale politecnico) con la natura non-umana (vegetale, minerale, acquatico: non dimentichiamoci mai che l’acqua è più del 90% della biosfera).  La seconda: occorre formare specialisti del rapporto cibo/salute umana/salute planetaria secondo una prospettiva non frammentata ma complessiva, e complessa.  La terza: è necessario approfondire il più possibile il problema della finitezza, tanto umana quanto delle risorse naturali, in rapporto all’emergenza climatica e al rapporto tra terra e mare. In questo senso, abbiamo cominciato a collaborare con eccellenze e istituzioni internazionali nel campo della biologia marina, come il Prof. Roberto Danovaro che avremo il piacere di ascoltare tra poco.

Abbiamo sempre detto che Pollenzo è nata dentro una prospettiva multi- e inter-disciplinare. È giusto, le interconnessioni disciplinari sono state un passo necessario fondamentale verso un modello di formazione più aperto. Ma forse oggi non bastano più; occorre un passo ulteriore per rispondere alle urgenze che il mondo ci pone. Ciò di cui abbiamo bisogno è di una rigorosa, seria, in-disciplinarietà, ovvero del superamento dell’idea stessa di “disciplina” autonoma e bastante a sé stessa. Anni fa il nostro Presidente aveva parlato di “austera anarchia”: mi pare che un sapere indisciplinato corrisponda a questa austera anarchia: anarchia significa, letteralmente, senza arché, senza un’unica origine, o un capo. Questa scienza è seria e rigorosa perché cerca di tenere conto di tutto, senza mettere nulla a capo o a comando.

È un sapere sincretistico ed eclettico, necessariamente sperimentale e creativo. È un pensiero artigianale almeno nel senso in cui l’artigiano ha una visione complessiva del lavoro che fa: non si occupa solo di un frammento, ma lo segue dall’inizio alla fine e ne è responsabile direttamente. Ciò ha effetti anche sul modo in cui avviene la comunicazione tra ≪ambiti≫ disciplinari, giacche occorre superare ogni rigida territorializzazione del pensiero, quella settorializzazione agri-logistica cosi amata dai tanti guardiani dei domini disciplinari di cui ancora sono popolate istituzioni e accademie. Attenzione: non si vogliono negare le differenze. Questi ≪ambiti≫ costituiscono risorse preziose, perché esprimono le diverse prospettive di come gli umani hanno organizzato la loro vita sul pianeta. Ma devono essere visti come aspetti collaborativi per rispondere alle esigenze di quell’unità indivisibile di cui parlava Bohm. Si tratta di creare uno specialismo olistico, non frammentato: quello dell’artigiano e dell’amatore, che sanno tutto di ciò che fanno ma che hanno consapevolezza che sono loro i responsabili di tutto il processo.

 

Conclusioni

Se tutto questo ha senso, Pollenzo ha molto senso ed entra in questa idea di futuro perché il cibo è uno strumento esemplare innanzitutto per comprendere la natura della realtà come collaborazione, coesistenza e coabitazione e, poi, per indirizzarla coerentemente lungo questa direzione: One World, One Life. Il cibo è il paradigma delle ambiguità della relazione e della resistenza: può essere segno di disagio e difficoltà, di guerra e di malattia, ma anche strumento di benessere e felicità, di pace e di salute. Può essere alienazione ma anche convivialità e cura. Il cibo è l’emblema della comunicazione e dell’ospitalità – e oggi c’è un enorme bisogno di cura, di comunicazione profonda e di ospitalità.

Conoscere le ambiguità e le complessità del cibo significa dunque studiare tutto questo, scorgerne criticamente i processi, accorciando così, innanzitutto col pensiero e poi con le pratiche, le catene e le filiere. Occorre soprattutto, in questo quadro, ripartire da concetti come “tradizione”, “territorio”, “identità”, “qualità”, “autenticità”, per decostruirli criticamente e non per cancellarli e annullarli, dicendo troppo frettolosamente e superficialmente che non hanno più alcun senso; ma per ridefinirli con nuovi significati adeguati alla contemporaneità. Forse occorre anche decostruire criticamente anche lo stesso concetto di “gastronomia” e di “scienze gastronomiche”, per elaborare nuovi scenari rimanendo nel solco.

Pollenzo è un’Università, ma è un’università orientata, con un progetto culturale e filosofico forte, il cui compito è quello di contribuire, attraverso la formazione e ciascuno per quel che può rispetto alle proprie, singolari sensibilità e conoscenze, a un rinnovamento e a una continua rigenerazione sociale, politica e culturale che abbia al centro una nuova umanità ospitale: ospitante ma anche responsabile del pianeta che la ospita, della Terra Madre.

 È una sfida dura e difficile, perché la situazione è molto ingarbugliata, il futuro sembra venirci addosso e tutto sembra sfuggirci dal controllo. Ma è una sfida che vale assolutamente la pena di fare, che è necessario fare, e alla quale la nostra piccola Università intende offrire un contributo importante nello spirito sperimentale, avanguardistico, artigianale e rigoroso che la contraddistingue. È con questo spirito che dichiaro aperto il 21° Anno Accademico dell’Università di Pollenzo.