Approfondimenti

Cibo e Buddhismo: dall’eliminazione del desiderio a pratica verso l’assoluto

Giovedì 3 novembre, presso il Centro Polifunzionale Arpino di Bra, si è tenuta la conferenza su “Cibo e Buddhismo”, a cura del professor Massimo Raveri, docente di Religioni e Filosofie dell’Asia Orientale all’Università Cà Foscari di Venezia.

Questo incontro ha chiuso il ciclo di quattro appuntamenti su “Cibo e religioni” ideato dal Priore di Bose Enzo Bianchi (insignito recentemente dalla nostra università della laurea honoris causa).

“Perché il rapporto tra cibo e buddhismo tocca tutti noi molto da vicino?” ha esordito il professor Raveri. Innanzitutto perché, in Italia, il numero di immigrati di questa religione è in continua crescita: oggi si parla di 400.000-500.000 persone iscritte all’Associazione Italiana Buddhisti.

Inoltre, come ognuno di noi può constatare nelle proprie realtà cittadine, è in grande aumento il numero di organizzazioni, enti, associazioni che propongono corsi e pratiche di matrice o ispirazione buddhista: centri yoga, di arti orientali, di meditazione si stanno oggi moltiplicando, inserendosi anche in contesti che con questa religione non hanno tradizionalmente niente a che fare, come le palestre.

Se poi andiamo a vedere l’aumento esponenziale del numero di ristoranti giapponesi e cinesi nei nostri centri urbani, risulta evidente come il dialogo e l’incontro con l’Oriente in generale, e con la dottrina buddhista nello specifico, ci interessi sempre più in modo concreto.

Fatta questa premessa per richiamare l’attenzione dei presenti, il professore è entrato nel vivo della propria esposizione con un’affermazione importante, di grande risonanza: “il cibo è sempre stato nella storia della religione buddhista un grande problema, non morale,* ma esistenziale”.

Per spiegare ciò, è indispensabile chiarire due concetti fondamentali di questa dottrina: il Samsara ed il Nirvana.

Per Samsara si intende il ciclo delle rinascite, in cui tutti gli esseri viventi sono intrappolati. Lungi dal vedere questa serie di reincarnazioni in ottica positiva, come a primo impatto potremmo pensare, i buddhisti considerano il Samsara una condanna. La liberazione da questo ciclo infinito di sofferenza può essere raggiunta solo attraverso il Nirvana, la salvezza della morte definitiva. Essa viene ottenuta nel momento in cui ci si libera di tutte le forme di desiderio che ci tengono ancorati alla vita terrena, riconoscendo così la realtà ultima. È proprio il desiderio, che si manifesta attraverso sensi e sentimenti, la fonte di tutte le illusioni, e da esso scaturisce la violenza dell’animo umano.

Da questa ottica, secondo la quale il raggiungimento della liberazione avviene attraverso l’eliminazione del desiderio, ha origine il rapporto problematico con il cibo. Infatti esso costituisce un desiderio irrinunciabile per l’uomo, e se si vuole sopravvivere non può eliminare completamente il suo soddisfacimento. Una delle tentazioni con cui il demone Mara tentò infatti di sedurre il Buddha nel suo percorso verso la via dell’illuminazione, fu proprio attraverso il cibo.

Come si deve comportare quindi un buddhista dal punto di vista alimentare?

La soluzione della dottrina a questo dilemma è stata complessa e variegata ed è andata incontro anche ad un’evoluzione nel tempo, a seconda delle diverse correnti che si sono formate in seno a questa religione.

La risposta tradizionale è stata quella della ricerca di una via mediana: il rapporto con il cibo va gestito e controllato. Il principio fondamentale è quello dell’astensione, che si palesa innanzitutto nel divieto di uccidere altre creature per nutrirsi. Per questo motivo i buddhisti sono essenzialmente vegetariani.

Ci si astiene inoltre dal consumo di bevande alcoliche, in quanto eccitano le passioni ed accrescono quel desiderio da cui si vuole liberarsi.

Il cibo deve essere inteso come un dono, come qualcosa che si riceve, non di cui ci si appropria, dominandolo.

L’idea fondamentale è quella di nutrirsi solo di ciò che è necessario, il superfluo va eliminato.

In questa prospettiva anche la pratica del digiuno assume grande rilevanza. Il monaco accetta la fame e rinuncia al cibo per dei periodi più o meno prolungati come esercizio di controllo del proprio desiderio. Lo fa tuttavia con spirito altruistico: quando il Buddha digiunava lo faceva parlando con gli altri, mettendosi a disposizione.

In questo la figura dei monaci si contrappone a quella dei Gaki, gli spiriti maligni della religione buddhista, rappresentati come demoni affamati dal grande ventre, che vorrebbero mangiarsi il mondo, ma che non possono soddisfare il loro desiderio perché hanno un collo talmente stretto dal quale non passa cibo. Vagano quindi senza tregua negli inferi, nel tentativo inutile di placare la loro fame atavica.

Intorno al settimo secolo d.c., si forma una corrente del Buddhismo, detto esoterico-tantrico, che rimette in discussione la tradizionale visione del senso del male in questa religione.

I sensi e i sentimenti vengono visti come qualcosa di profondo, insopprimibile. I suoi fautori accusano la tradizione precedente di spingere le persone ad una repressione della propria anima. Solo tramite il passaggio attraverso le proprie illusioni, si può giungere alla liberazione.

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Perciò gli adepti vengono condotti dai maestri attraverso un percorso fatto anche di trasgressioni forzate al fine di poter esplorare la propria anima: vengono invitati ad abbuffarsi di cibi considerati nocivi, come carne e alimenti piccanti fino alla nausea, ad ubriacarsi di bevande alcoliche sino alla perdita della coscienza. L’idea di fondo è che solo chi conosce i meandri più bui di sé, una volta uscitone abbia la forza per raggiungere l’illuminazione.

Su questo punto è evidente la differenza che separa il Buddhismo da religioni come il Cattolicesimo o l’Islam: la dottrina buddhista non è una via etica alla salvezza ma una via di sapienza; solo attraverso la conoscenza di sè la liberazione può essere ottenuta.

È però all’interno del filone giapponese della scuola Zen, che il discorso sul cibo viene affrontato finalmente in accezione positiva, e non soltanto come un problema a cui far fronte.

Nello Zen, ogni azione quotidiana, se esercitata in modo consapevole può essere un’occasione di pratica meditativa. In quest’ottica il cucinare da una parte, ed il nutrirsi dall’altro, vengono viste come grandi occasioni di azione consapevole.

Cucinando si trasforma il cibo, ma nello stesso tempo si viene da esso trasformati. Il cuoco si dedica agli altri: abbandona la prospettiva talvolta egoistica della ricerca della propria salvezza, e trasformando materie prime di poco valore (generalmente verdure o cereali), in piatti buoni, salutari e facilmente digeribili permette al resto della comunità una ottimale pratica meditativa. Perciò il ruolo del tenzo – il responsabile alla preparazione dei pasti – nel monastero zen assume una rilevanza fondamentale.

Emblematica in questo senso è la figura del monaco Dogen Zenji, vissuto in Giappone nel tredicesimo secolo. Egli lavorò per diversi anni come tenzo nel suo monastero e scrisse il libro “Istruzioni per un cuoco zen, come ottenere l’illuminazione in cucina”, che solo dal titolo ci evidenzia l’idea dell’arte di cucinare come linguaggio verso l’assoluto. Alternando sapientemente i sei sapori (acido, amaro, dolce, salato, insipido e piccante) chi fa da mangiare può esprimere nei propri piatti le quattro qualità fondamentali della propria anima: la pulizia (che rivela la genuinità di cuore), l’accuratezza (che manifesta la concentrazione nella preparazione), la semplicità (che evidenzia l’essenzialità del cuoco) e la purezza, in conformità con le leggi della natura. Nel monastero di Dogen la figura del capocuoco è di grado inferiore solo a quella dell’abate.

Con questa visione poetica e romantica della cucina nella dottrina zen, il professore ha tirato le fila della propria panoramica sul rapporto tra cibo e Buddhismo. Una relazione sicuramente controversa, sfaccettata ed in continua evoluzione.

Sicuramente gli spunti di riflessione ed i rimandi per approfondimenti futuri sono stati molti, in una conferenza che oltre a darci un’idea del cibo visto da un punto di vista differente, ci spinge ancora una volta a problematizzare e riflettere sul modo che ognuno di noi ha di alimentarsi e di rapportarsi ad esso.

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